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giovedì 20 giugno 2019

L'attesa

La finestra affaccia sullo stesso viale alberato e sulle colline che nascondono le ville della Torino benestante.
Però qui si vede anche la piazzola dell'el'elicottero, che di la' sentivo ma non vedevo.
Anche il sottofondo rumoroso del traffico intenso è lo stesso, così come il caldo, quell'afa umida e quella luce troppo forte, che se non ci sei abituato ti toglie il fiato e la voglia.

Lei sonnecchia, perché non c'è molto altro da fare, quando sei ferma in un letto d'ospedale, con le medicine ad incrementare la stanchezza e l'apatia.

Vado a cercarmi un Magnum, non bianco come allora, perché lo hanno finito, ma classico.
Anche il bar è diverso. Questo è nell'atrio del piano terra, otto piani sotto.
L'altro lo raggiungevo infilandomi di nascosto in ascensore e scendendo per cinque piano, passando dai sotterranei, ed era quello dell'ospedale vicino, collegato al mio.
Perché mica avrei potuto, in teoria, uscire al reparto. Eppure insistevano che dovevo mangiare tanto e mi riempivano di riso bollito scondito, patate lesse scondite, yogurt bianco se andava di lusso, pezzi di parmigiano asciutto, come secondo, e banane.
Ad un certo punto sono arrivato a portarmi cinque banane al giorno. Manco fossi una scimmietta.
Io sognavo Magnum bianchi e caffe' e, una volta al giorno, camminavo fino al bar, in pigiamo e con l'attacco della flebo nel braccio, che tanto era ovvio da dove venissimi, con quel pancione.

Due giorni in ospedale, a pochi metri di distanza da quello in cui ero io, sempre a giugno, sempre in questi stessi giorni, sempre con il caldo. E' inevitabile smuovere ricordi, un trauma che forse non ho ancora superato, visto che quando ne parlo o ne scrivo, ancora mi salgono le lacrime agli occhi.

I monitoraggi, la flussometria, l'eco di accrescimento, il cortisone e la paura che qualcosa non andasse, la paura di un'oscura malformazione o di sofferenza fetale.
Perché lui non cresceva mai e lei troppo lentamente. Solo le piastrine correvano veloci, nella direzione sbagliata.
E l'attesa. Appiccicosa, rumorosa, rude, senza nessuna intimità, da paziente, non da persona.
Negli ospedali è così, anche quando funzionano, ti trattano bene e sono puliti e competenti.
Sei comunque un caso, carne e sangue, non "Giulia".

Come allora io le visite tue e dell'Alpmarito, tu aspetti me.
Mi mancava il mio bambino, andarlo a prendere a scuola, portarlo ad allenamento, la cena, le chiacchiere, la lettura della buonanotte, i suoi vestiti sporchi da lavare, il pavimento del bagno allagato alla sua doccia, i suoi capricci, i suoi sorrisi, i suoi piedi sempre sul divano, i salti sul letto.
Non avevo timore del parto, anche se dal dolore dovevo ancora passare.
Per fortuna il tuo intervento invece è già finito, tutto bene.
Non è nulla di grave, solo che tutto dipende da come lo vivi.
Lo so che anche tu hai nostalgia di casa, del nostro cielo, della nostra aria, delle tue cose, della tua intimità.
Lo so, che ti mancano i tuoi figli grandi e i tuoi nipoti piccoli e tua madre. Il poterti muovere in autonomia.

E ripenso all'anestesia, ai quella manciata di minuti in sala parto, a dopo, in camera, quando riuscivo solo a dormire e chiedere di lui.
Lei mi ha avuto subito vicina ma, in fondo, io c'ero solo in parte.
Divisa tra l'ansia per lui, solo ai piani sopra, e per il mio bimbo grande, a casa con i nonni, entrambi lontani da me.
Ricordo i miei tentativi di tirare il latte, per lui. I quarti d'ora diventati un'ora per fargli bere 10/20 gr di latte. L'attesa di sapere se aveva ancora il sondino, se aveva preso qualche grammo oppure no, se piangeva oppure no, il rumore del saturimetro costante.

E poi le chiacchiere, le compagne di stanze che arrivavano e partivano, le infermiere, le visite serali dei parenti festanti per i nuovi nati, quando io mi rifugiavo in sala d'attesa, per stare sola a leggere, le gestanti che camminavano per i corridoi, notte e giorno, con le contrazioniola speranza.

Mi manca di nuovo il fiato. Non vedo l'ora di uscire,  nell'afoso ed impietoso caos della città.
Fuori lo stesso caldo umido, lo stesso cielo.
Le stesse date, sul calendario in corridoio. Ma a due anni di distanza.
Dentro, una diversa attesa.
O forse, a ben guardare, la stessa: una madre che aspetta i suoi figli.

A casa, un'altra madre, nella stessa attesa.

Forse è anche questa, l'essenza della maternità.










martedì 6 marzo 2018

La TIN: un'esperienza indimenticabile


La TIN: una esperienza che lascia il segno.


I miei gemellini sono nati a 35 settimane + 3 giorni, a causa di un arresto di crescita del maschietto.
Sono dunque dei bimbi prematuri anche se, per fortuna, con una prematurita’ lieve poiché, avendo superato l’importante traguardo delle 35 settimane di gestazione (con la terapia cortisonica a 34 settimane, quando minacciavano di nascere),  e non avendo altre patologie, sono nati con piena autonomia respiratoria.
Non hanno dunque avuto bisogno di ossigeno e, pur essendo entrambi piccolini (2200 gr  la mia bimba,1670 gr. il mio bimbo), la femminuccia ha trascorso solo una notte (immediatamente dopo la sua nascita) in culla termica, mentre il maschietto ha trascorso due giorni in incubatrice, restando per in TIN qualche giorno.

Poter abbracciare un figlio subito dopo il parto sembra scontato, naturale. 
Così mi era sembrato con il ricciolino.
Con i gemellini, ho scoperto che,invece, è un dono immenso.
Li ho visti e salutati subito ma solo per un istante.

Quando mi sono risvegliata dall’anestesia ho dovuto rimanere immobile a letto e ho potuto tenere in braccio la mia bambina solo una decina di ore dopo.
Ore annebbiate e stanche ma anche lunghissime.
Il mio piccolino, invece, ho potuto rivederlo solo il giorno ancora successivo, in terapia intensiva neonatale, dopo aver guardato in lacrime due foto sul cellulare.
La prima volta che sono potuta andare da l'io ho solo pianto, non osando neppure aprire lo sportellino per toccarlo.
Quando, finalmente, mi hanno invitato a farlo e, dopo poche ore, a tenerlo in braccio e dargli il latte, un po’ con il biberon ed un po' con il sondino, è stata una emozione incredibile.
Ogni volta che accedevo al reparto, lo vedevo così piccolo e fragile (con il calo fisiologico dei primi giorni, più importante nei prematuri, era sceso a 1500 gr): stava a pancia in su nella sua culletta, in tutine taglia 00 comunque enormi per lui e avvolto dalle copertine come in un bozzolo, gli occhietti i primi giorni quasi sempre chiusi.
Mi sentivo impotente, incapace, impaurita.
La sua crescita, la sua cura, non dipendevano da me.
È stato il personale della terapia intensiva neonatale di Torino, la TINO, che mi ha fatto comprendere quanto la presenza mia e del papà fosse preziosa per lui, quanto lui avesse bisogno di noi e del mio latte, se e nella quantità in cui fossi riuscita a produrlo.

Il mio bimbo ha trascorso in TIN solo 13 giorni.


Nulla, rispetto ai mesi di ricovero che vi trascorrono i neonati gravemente prematuri o malati ed i loro genitori.
Nulla, rispetto all’arco di una vita o, anche solo, alla prima infanzia di un bambino.
Una eternità, nella percezione mia e del suo papà.
13 giorni, di cui sette trascorsi ricoverata due piani più sotto, con la piccolina ma lontano dal mio bimbo “grande”, gli altri lontana da lui, ad andare e venire per stare insieme almeno un paio d’ore, lasciando fratellone e sorellina a casa con la nonna.

Quei giorni di TIN hanno lasciato il segno, su di me come, ne sono certa, su tutti i genitori che hanno varcato le porte di un reparto di terapia intensiva neonatale, per una manciata di giorni come per lunghi mesi.

L’esperienza della TIN è difficile da spiegare, impossibile descrivere efficacemente le sensazioni e le emozioni, positive e negative, che si provano.
È come entrare in un’altra dimensione, dove paura, dolore, speranza e gioia, convivono e si alternano continuamente.

Il suono dei tanti monitor di controllo dei bimbi, gli schermi che mostrano i parametri vitali, i genitori dagli occhi stanchi eppure pieni di vita e di speranza che siedono accanto a culle ed incubatrici, o camminano per i corridoi.
Il silenzio e, contemporaneamente, il rumore continuo.
Le mamme che tirano il latte nelle apposite stanze, contrassegnando il botticino con il nome del loro bambino, gli incontri con i medici e gli specialisti, 
le foto nella saletta per i genitori..
Foto di creaturine piccolissime, così fragili eppure così forti e combattive, a fianco di quelle degli stessi bimbi, diventati “grandi” come i loro coetanei non prematuri. Foto accompagnate da biglietti di ringraziamento.
Quelle foto mi hanno rincuorato, come i sorrisi di incoraggiamento e gli sguardi di comprensione di tutte le mamme ed i papà incrociati in quei giorni in reparto e le parole misurate e competenti dello staff dei medici e delle infermiere.

Ho imparato molto da questa esperienza: l’aiuto prezioso di due chiacchiere o anche solo dello sguardo di una persona che ha vissuto una esperienza simile, la differenza quasi miracolosa che può fare un giorno in più nella pancia della mamma, l’importanza di poche gocce di latte o della capacità di 
suzione autonoma, la straordinaria spinta alla vita che la presenza della mamma o del papà rappresenta per un bambino, il conforto profondo del contatto pelle a pelle e della voce “di casa”.
Ho capito la forza ed il coraggio di genitori alle prese con problemi gravissimi o situazioni fragilissime, ben lontane dalla nostra, eppure capaci di sorridere ai loro bimbi e lottare con loro, trovando anche il tempo per incoraggiare altri genitori smarriti.

Prima, quando mi raccontavano di neonati prematuri, annuivo e cercavo di immaginare, ma non comprendevo davvero cosa provassero i loro genitori.
Ora so di non sapere cosa significhi avere un figlio nato troppo presto, prestissimo, trascorrere mesi in TIN, magari portarlo a casa attaccato all’ossigeno e poi alle visite di follow up.
Ho provato, però, cosa significa avere paura per il proprio figlio prima ancora che nasca, perché qualcosa non quadra, perché è troppo presto e le incognite sono tante.
So cosa significa entrare in TIN, sedersi accanto ad una incubatrice senza poter abbracciare il proprio figlio e attendere la notizia che ha assunto, in un modo o nell’altro 10 ml di latte o guadagnato 10 gr di peso, esultando per tali traguardi come se avessi vinto alla lotteria.
Seppure, fortunatamente, solo per pochi giorni.

Pochi giorni di vita sospesa.
Quando niente di quello che accade fuori dal reparto è importante.

So cosa significa vederlo imparare a che cucciare dal biberon, prendere peso e finalmente, un giorno, sentirsi annunciare che può tornare a casa.
Che è pronto.

Non lo dimenticherò mai, così come ricorderò con gratitudine il TINO ed il suo personale.

lunedì 25 settembre 2017

Il mio parto gemellare

Attenzione: post lungo e ad alto contenuto emotivo, ma a finale lieto!

Oggi, a tre mesi da quel 23 giugno che ha cambiato la nostra famiglia, mentre la piccola dorme dopo la prima poppata del mattino ed il piccolo inizia dare segni di risveglio, mentre la caffettiera grande (il primo caffè è sempre doppio!) è sul fuoco, vi voglio raccontare il mio parto, partendo dal ricovero.

La gravidanza sembrava andare a gonfie vele, a parte la stanchezza che a maggio ormai si faceva sentire, decisamente più che per quanto accaduto con il ricciolino, nonostante gli integratori di ferro e l’aumento di peso contenuto.
In effetti, negli ultimi giorni di maggio, avevo intuito che qualche cosa non andava, ma ne’ la mia ginecologa ne’ i medici dell’ospedale di Aosta, sembravano preoccupati e d’altra parte, l’ambulatorio per le gravidanza gemellari di Torino, contattato telefonicamente, continuava a rispondermi che le gemellari bicoriali e biamniotiche, come la mia, non le seguivano, non essendo di per sè a rischio ed avendo loro già molti pazienti,  ameno che non vi fossero problemi particolari.
Poi, pochi giorni dopo, mentre ero in ufficio, iniziano contrazioni persistenti. Sono solo alla 31 settimana per cui, dopo qualche ora, chiamo l’ostetrica del vicino poliambulatorio, che mi invita ad andare subito al pronto soccorso.
Vado a Torino, dove passo il pomeriggio e parte della sera: mi dicono che il collo dell’utero è accorciato ma in modo tutto sommato normale, che non sono contrazioni serie, che i flussi dei cordoni ombelicali sono a posto ma non l’accrescimento del maschietto: non è cresciuto per nulla dall’ultima eco (fatta ad Aosta meno di un mese prima, in cui mi avevano segnalato che uno dei gemelli era più piccolo dell’altro ma non c’era da preoccuparsi perché accadeva spesso).
Il dottore aggiunge che può essere sintomo di una grave malformazione (quale? Nessuna risposta, o meglio: “se avesse fatto l’amniocentesi lo sapremmo!”) oppure di un problema al cordone ombelicale o ancora, assolutamente nulla.
“Bisogna attendere almeno 15 giorni per una nuova misurazione e poi si vedrà”.
Nel frattempo devo stare a riposo (ma non a letto) e prendere il Buscopan.
Un doccia gelata. 
Fortunatamente i giorni passano, nonostante le contrazioni continuino.
Torno a Torino a 33 settimane per l’eco di accrescimento: ancora nessuna crescita del maschietto e anche la femminuccia è cresciuta sotto il minimo percentile.
Mi invitano a prenotare una visita all’ambulatorio delle gravidanze gemellari e, quando faccio presente che ho telefonato ripetutamente senza esito, mi suggeriscono involontariamente una scorciatoia, ovvero di iniziare ad andare all’ambulatorio "day service", per il “bilancio di salute pre parto”, ad accesso libero.
Era il giorno della recita di fine anno alla materna del ricciolino, il giorno successivo al mio compleanno e mi accompagnava mia madre.
Siamo tornati in fretta da Torino per assistere alla fine dello spettacolo, anche se mi veniva da piangere dalla preoccupazione, oltre che dalla commozione per il mio ometto.

Tre giorni dopo sono all'ambulatorio "day service" e parlo con una ginecologa premurosa che coglie al volo la situazione, telefona direttamente ad una collega della gemellare e mi prenota d’urgenza per il pomeriggio stesso.
Per farla breve, finalmente mi considerano abbastanza a rischio e vengo inserita nel circuito ospedaliero: nonostante l'arresto di crescita i bambini non sono in sofferenza e mi rimandano a casa con appuntamento a due giorni dopo.
Sono a 34 settimane, mi ricoverano e fanno la terapia cortisonica per i polmoni.
Sono giorni di ansia e attesa, di caldo insopportabile, travagli in camera e nostalgia del ricciolino e di casa, di monitoraggi continui, assenza di privacy e insonnia, dieta monotona e insipida e peso invariato. 
Mia madre è sempre al mio fianco.
Poi, il 22 giugno, nuova eco: crescita invariata per il maschietto e anche la femminuccia è cresciuta ben al di sotto della media.
A questo punto, mi dicono che a breve mi indurranno il parto.
Già sapevo, dal ricovero, che sarebbe stato vaginale (i bambini sono entrambi cefalici) - e a me va benissimo, perchè non vedo motivo di rischiare un taglio - e senza possibilità di spinale o epidurale, neppure in caso di taglio d'urgenza.
Essendoci già passata, nonostante le storie terribili di travaglio ed induzione a cui ho assistito e che ho mio malgrado sentito durante il ricovero, sono relativamente tranquilla.

Finalmente, venerdì 23 nel primo pomeriggio partono con l’induzione, avvisandomi che in genere ci vogliono dalle 12 alle 24 ore per partorire.
Sono a 35 settimane.
Avviso l’Alpmarito perché rientri dal lavoro all’estero senza però mettergli fretta, viste le previsioni.
Trascorrono sei ore ma solo nelle ultime due inizio ad avvertire contrazioni, molto ravvicinate ma che non mi impediscono di passeggiare, parlare e stare sotto la doccia. Rompo le acque.
Visita: nessuna dilatazione
Torno in camera e dopo pochissimo le contrazioni diventano ravvicinate e forti, sento che devo partorire subito.
Avviso l’ostetrica che inizialmente non mi crede, in fondo mi ha visitato dieci minuti prima e non c’era alcuna dilatazione. Frattanto, appena in tempo, arriva l’Alpmarito.
Io insisto che secondo me è il momento della fase espulsiva ed infatti: dilatazione completa in 15 minuti!
Corsa in barella fino alla sala parto e mentre arrivano anche il primario e il neonatologo e l’ostetrica indossa il camice, in nove minuti nascono entrambi i gemelli.

Tuttavia, a causa di una forte emoraggia, ho appena il tempo di vedere i bambini in braccio al papà e sentire il conto delle perdite ematiche ad alta voce (angosciante!!!), che l’anestesista mi addormenta.
Mi risveglio che è già mattina, ancora in sala parto. 

E' andato tutto bene ma la paura è stata tantissima, per me in primis, ma anche per l'Alpmarito e mia madre, che attendevano fuori senza veder più uscire i medici.
I viaggi a Torino, le mille telefonate per riuscire a prenotare una visita, la fatica del ricovero e la paura in sala parto, acquistano senso. 
Se non fosse stata lì, chissà ora come staremmo, noi tre.

Il pomeriggio mi portano in camera la piccola, dopo una notte in culla termica e i controlli del caso, con tanto di biberon, perché non devo muovermi e in quel momento non mi passa neppure per la testa di provare ad allattare.
Il mio piccolo posso vederlo solo il giorno ancora successivo, quando finalmente posso alzarmi dal letto e salire in terapia intensiva neonatale.
E vedendolo in incubatrice, piango.






mercoledì 11 giugno 2014

#parto da qui. Praticamente, la gestazione di un elefante.

Sei nato a 41 settimane + 5, praticamente la gestazione di un elefante. Gli ultimi giorni sono stati stancanti, tra un monitoraggio infinito e l'altro. Era un mese che non dormivo più di 5 ore per notte, per l'ansia, per il mal di schiena.
Tu nulla, ti facevi beffe di noi e della nostra voglia di sapere, di conoscerti, di scoprire se eri una fagiolina o un fagiolino.
Finalmente, alle 23.30 del 7 novembre, quando mi ero appena addormentata, si sono rotte le acque. E io che temevo di non accorgermene!!
Doccia, vestizione e via in ospedale, come insegnato al corso preparto. Ricovero in tutta tranquillità, in assenza di contrazioni (anche quelle preparatorie, del resto, erano state rare e quasi inesistenti).
Ci informano che c'è ancora tanto liquido e se non partirà da solo mi indurranno il parto solo in serata. Il tuo papà torna a casa a riposare, io resto a rigirarmi nel letto di un rumoroso ospedale.
Verso le sette del mattino, la prima contrazione, non troppo forte.
Mezz'ora dopo,un'altra. Aumentano di intensità e frequenza ma senza fretta. Chiamo il tuo papà, che si presenta verso le 10 e vaga per il reparto maternità per un bel momento senza trovarmi, perchè io, intanto, mi sono rifugiata sotto la doccia da almeno un'ora, mentre qualcuno passa ogni tanto a controllare se sto bene e portarmi asciugamani puliti.
Alle 11.30 vado in sala monitoraggio perchè ora le contrazioni si succedono quasi senza posa: si inziza a fare sul serio.
Dopo un pò chiedo l'epidurale.Risposta: "E' troppo presto!"
La richiedo dopo mezz'ora: "Oh, no, è troppo tardi, ormai è dilatata!"
Poco dopo sento che devo spingere. Via, sala parto.
Tutto bene finchè, di colpo, l'ostetrica si zittisce e dice all'infermiera di chiamare subito il medico. Passa un attimo e richiama, più agitata.Ha cambiato voce.La sento dire che non c'è più battito. Oppure lo spiega al tuo papà o lo dice al telefono, non so. So solo che si ferma tutto, anche le contrazioni.
Poi le mani del tuo papà spostano la cintura per il monitoraggio, trafficano sul pancione...il battito torna. Mi fanno un nodo stretto, il medico arriva tutto bardato, ci guarda e se ne va. Operazione scongiurata. Per fortuna c'è il tuo papà.
Peccato solo che io non senta più nulla, per lo spavento. Alla fine, non so come, si riprende e all'01.50 p.m., finalmente, nasci tu.
L'ostetrica ti porta subito nella stanza a fianco per il ceck up: non ricordo di averti sentito piangere, so solo che chiedo all'ostetrica: "E' intero, ha tutto?" Lei sorride e mi rassicura.
Io sono sfinita dalla fame e dal sonno, il tuo papà ha una faccia stravolta, tu sembri un ranocchietto e mi accorgo di non aver chiesto se sei maschio o femmina, me lo dice il tuo papà.Non mi capacito: sei uscito da me, davvero?
Ci lasciano in una stanza vuota, sul letto, tu nudo ma con il cappellino di cotone a righe azzurre e verdi acqua, sul mio petto, con una coperta di lana sopra.Ho freddo e sonno.
Ti guardo, tu mi guardi, con gli occhi spalancati.
Incredulità totale.
Mi madre poi, mi dirà che gli sono sembrata di colpo piccola e indifesa, tornata bambina.E così mi sono sentita.
Alla fine ci addormentiamo, mentre il tuo papà e la nonna ci vegliano a turno.
Dopo ore tranquille, vengono a prenderti e vai con il papà a fare il bagnetto. Torni vestito, con la tutina più piccola, quella che ti hanno regalato gli zii, grigia e beige, ed il cappellino di cotone rosa, con scritto "Born in 2011". L'infermiera ha insistito per mettertene uno pulito e ti è toccato quello di riserva.
Ti presenti al mondo così.

Mamma Avvocato

Con questo racconto (in versione "non sintetica"), partecipo alla bellissima iniziativa di FrancescaGabMaria Elena: Parto da qui !
Se volete partecipare anche voi, affrettatevi, avete tempo fino a domenica!!