Oggi, 8 marzo 2016, in occasione della festa della donna il CNF (Consiglio Nazionale Forense), con la sua newsletter via mail, mi ricorda che "Secondo gli ultimi dati relativi all’Albo telematico, aggiornati a
dicembre 2015, le Avvocate iscritte sono infatti 111.605, ossia il 47%
di tutti gli iscritti. Un numero che fa impressione anche solo
paragonandolo al numero delle Avvocate iscritte nel 1981: appena il 7%."
Dal 7% al 47%, in 34 anni.
Un numero che impressiona e lo fa in positivo.
Ancor più impressionante, però, è pensare che, secondo i dati di Cassa Forense: "il reddito professionale medio
femminile nel 2014 è stato pari a euro 22.070, contro i 51.503 dei
colleghi uomini."
Le donne rappresentano quasi la metà dell'avvocatura, dunque, ma guadagnano in media meno della metà dei loro colleghi maschi.
E non mi si dica che è perchè lavorano meno ore o si dedicano meno alla professione.
Se lo fanno, quando lo fanno, è perchè devono occuparsi anche della famiglia e della casa, quando quasi sempre i colleghi maschi delegano alle loro mogli/compagne.
La verità è che la parità non esiste, non ancora, nè nelle libere professioni nè nella intimità domestica nè nel lavoro dipendente.
Non solo.
La stessa mail mi informa che l’Istat nell’ultimo rapporto del giugno scorso ha concluso che: “La violenza contro le
donne è fenomeno ampio e diffuso. 6 milioni 788 mila donne hanno subìto
nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o
sessuale, il 31,5% delle donne tra i 16 e i 70 anni: il 20,2% ha subìto
violenza fisica, il 21% violenza sessuale, il 5,4% forme più gravi di
violenza sessuale come stupri e tentati stupri. Sono 652 mila le donne
che hanno subìto stupri e 746 mila le vittime di tentati stupri”.
Viene da pensare che, se questa è la situazione, c'è poco da festeggiare.
Eppure no.
Oggi, secondo me, bisogna partire da quei dati per festeggiare le conquiste, per pianificare i prossimi passi di una lotta di civilità pacifica eppur dura e dolorosa, per sognare in grande.
Come noi donne, se vogliamo, sappiamo fare.
La storia lo dimostra.
Lidia Poet, laureata in Giurisprudenza nel 1881, fu la prima donna ad
essere iscritta ad un Albo di Avvocati nel 1883.
Nessuna legge lo vietava, eppure la Corte d’Appello di Torino annullò l’iscrizione
con una sentenza che ha fatto la storia (confermata dalla Corte di Cassazione).
“La
questione sta tutta in vedere se le donne possano o non possano essere
ammesse all’esercizio dell’avvocheria (…). Ponderando attentamente la
lettera e lo spirito di tutte quelle leggi che possono aver rapporto
con la questione in esame, ne risulta evidente esser stato sempre nel
concetto del legislatore che l’avvocheria fosse un ufficio esercibile
soltanto da maschi e nel quale non dovevano punto immischiarsi le
femmine (…). Vale oggi ugualmente come allora valeva, imperocché oggi
del pari sarebbe disdicevole e brutto veder le donne discendere nella
forense palestra, agitarsi in mezzo allo strepito dei pubblici giudizi,
accalorarsi in discussioni che facilmente trasmodano, e nelle quali
anche, loro malgrado, potrebbero esser tratte oltre ai limiti che al
sesso più gentile si conviene di osservare: costrette talvolta a
trattare ex professo argomenti dei quali le buone regole della vita
civile interdicono agli stessi uomini di fare motto alla presenza di
donne oneste. Considerato che dopo il fin qui detto non occorre nemmeno
di accennare al rischio cui andrebbe incontro la serietà dei giudizi
se, per non dir d’altro, si vedessero talvolta la toga o il tocco
dell’avvocato sovrapposti ad abbigliamenti strani e bizzarri, che non di
rado la moda impone alle donne, e ad acconciature non meno bizzarre;
come non occorre neppure far cenno del pericolo gravissimo a cui
rimarrebbe esposta la magistratura di essere fatta più che mai segno
agli strali del sospetto e della calunnia ogni qualvolta la bilancia
della giustizia piegasse in favore della parte per la quale ha perorata
un’avvocatessa leggiadra (…). Non è questo il momento, né il luogo di
impegnarsi in discussioni accademiche, di esaminare se e quanto il
progresso dei tempi possa reclamare che la donna sia in tutto
eguagliata all’uomo, sicché a lei si dischiuda l’adito a tutte le
carriere, a tutti gli uffici che finora sono stati propri soltanto
dell’uomo. Di ciò potranno occuparsi i legislatori, di ciò potranno
occuparsi le donne, le quali avranno pure a riflettere se sarebbe
veramente un progresso e una conquista per loro quello di poter
mettersi in concorrenza con gli uomini, di andarsene confuse fra essi,
di divenirne le uguali anziché le compagne, siccome la provvidenza le
ha destinate”.
(Corte d’Appello di Torino 11/11/1883 in
Giur. it. 1884, I, c .9 ss in ordine alla richiesta della dottoressa
Lidia Poet di essere iscritta all’Albo degli Avvocati)
Trent’anni dopo,
ci riprovò Teresa Labriola, che fu respinta dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di
Roma.
Solo nel 1919, con la Legge 1126 del 9/3/1919 alle donne fu consentito l’esercizio alle libere professioni e a tutti gli
impieghi pubblici, con l'eccezione, tuttavia, di quelli che implicavano poteri
pubblici giurisdizionali o l’esercizio di diritti e di potestà politici
o che attenevano alla difesa militare dello Stato.
Fautore di tale legge fu un uomo, Ludovico Mortara, avvocato, docente universitario e ministro Guardasigilli.
A 65 anni, nel 1920, Lidia Poet ebbe finalmente la possibilità di iscriversi all'Albo e di restarci.
Nel 1945 fu riconosciuto alle donne italiane il diritto di voto e nel 1961, finalmente, la possibilità di entrare in magistratura e nella diplomazia.
Nel 1945 fu riconosciuto alle donne italiane il diritto di voto e nel 1961, finalmente, la possibilità di entrare in magistratura e nella diplomazia.
La prima donna avvocato Presidente di un Consiglio dell'Ordine forense fu Angiola Sbaiz, eletta a Bologna nel 1978.
Da 0 al 47%.
Da 0 al 43% circa del reddito maschile.
Ci sono voluti più di cent'anni, ma il pareggio è dietro l'angolo, almeno numericamente.
Di strada da percorrere ne resta tanta, in tema di riconoscimento del valore del lavoro femminile, parità (effettiva) di diritti e rispetto, soprattutto di rispetto.
Forse, se per una volta noi donne la smettessimo di farci la guerra le une contro le altre e trovare ogni pretesto per criticarci a vicenda, forse se facessimo fronte comune e la smettessimo di lamentarci di chi non ci festeggia perchè non ci festeggia e di chi lo fa perchè lo fa o per il modo in cui lo fa, forse se ci impegnassimo a crescere figli non costretti da stereotipi di genere fin dalla più tenera età ma liberi di essere e sognare, forse, e dico forse, non servirebbero altri cent'anni.
Forse, dico forse, potremo contrastare la deriva della "decrescita felice" sulle spalle delle donne, la spinta a farci tornare ad essere "solo" mogli e madri, senza libertà di essere altro o di più.
Io, oggi, voglio crederci.
Di strada da percorrere ne resta tanta, in tema di riconoscimento del valore del lavoro femminile, parità (effettiva) di diritti e rispetto, soprattutto di rispetto.
Forse, se per una volta noi donne la smettessimo di farci la guerra le une contro le altre e trovare ogni pretesto per criticarci a vicenda, forse se facessimo fronte comune e la smettessimo di lamentarci di chi non ci festeggia perchè non ci festeggia e di chi lo fa perchè lo fa o per il modo in cui lo fa, forse se ci impegnassimo a crescere figli non costretti da stereotipi di genere fin dalla più tenera età ma liberi di essere e sognare, forse, e dico forse, non servirebbero altri cent'anni.
Forse, dico forse, potremo contrastare la deriva della "decrescita felice" sulle spalle delle donne, la spinta a farci tornare ad essere "solo" mogli e madri, senza libertà di essere altro o di più.
Io, oggi, voglio crederci.
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